La bambina che non sapeva chi era



La bambina che non sapeva chi era
si guardava allo specchio da mattina a sera.
Voleva capire la sua identità,
ma invece di mostrargliela, quella specchio cattivo
le rimandava solo
un grande punto interrogativo.

Natale 2014


Era la Vigilia di Natale e la neve cadeva leggera sopra Parigi. Anna pensò che il Natale precedente non aveva nevicato, ma che era stato comunque un inverno freddo con un vento incessante ed impetuoso. Il tempo giusto per starsene abbracciati con quel qualcuno così speciale.
Anna entrò dopo molti mesi nella vecchia stanza polverosa e notò subito che niente era cambiato: Il pavimento era ancora incrostato di sporcizia, l’intonaco cadeva dalle pareti e il letto non era mai stato rifatto. L’unica differenza era lo spesso strato di polvere che si era posato nell’intera stanza e che le arrivò subito ai polmoni.
Non era più il tempo degli abbracci.
Si buttò sul letto disfatto e polveroso e chiuse gli occhi.
“Posso farcela” pensò, “sistemerò le cose”.
Quel 24 Dicembre, il fantasma del Natale passato arrivò di soppiatto e le strappò il cuore.

Marta


Marta studia Lettere, indossa occhiali rosa ed è infelice.
Per fortuna le cose stanno per cambiare perché Marta sta partendo.

Marta sa che l'aspetta una nuova vita.

In valigia maglioni e jeans, subito.

Marta sa che sarà molto più felice.

Meglio non dimenticare i libri di poesie.

Marta sa che la tristezza finirà.

Bisogna fare posto anche alla macchina fotografica.

Marta sa che presto non sarà più sola.

Un posto anche per le scarpe da jogging ed il peluche preferito.

Marta sa tutto.
Che è un po' come non sapere niente.
Non c'è più spazio per il coraggio nella sua vecchia valigia.
Marta studia Lettere in Germania. Indossa occhiali rosa ed è infelice. 

Eva, la bambina che si spegneva


A tavola, le chiacchiere allegre della piccola Eva disturbavano i rumori della televisione.

Perciò il padre, d'accordo con la madre, fabbricò un telecomando speciale fatto apposta per la loro bambina.

Bastava premere un tastino rosso perché Eva si zittisse.

E da quel momento si poté cenare in pace, ascoltando la tv.

Alice, la bambina di vernice


Alice fu dipinta da un pittore molto povero e piuttosto vecchio. L’uomo era solo, senza più una moglie e senza aver mai avuto figli, ma desiderava così tanto una bambina, che una notte decise di crearne una.
Era molto povero, così povero da non avere più fogli sui cui dipingere, perciò dovette utilizzare il muro candido di una piccola scuola elementare e, non potendosi più permettere i colori, dovette utilizzare vecchi barattoli di vernice.
Impiegò quasi tutta la notte per creare la sua bambina, ma alla fine ci riuscì. Dipinse una fanciulla minuta, con un lezioso vestitino nero dal colletto bianco e i capelli rossi e ricci. La chiamò Alice.
A lavoro finito ripose i pennelli nella logora sacca, guardò la sua bambina dipinta, poi si voltò per tornare a casa. Si era appena incamminato quando sentì una vocina alle sue spalle.
«Non lasciarmi sola!»
Il vecchio pittore si voltò per vedere chi avesse parlato, ma non vide nessuno, a parte la bambina sul muro, che sembrava quasi, ma no, non era possibile! Non poteva aver sbattuto le palpebre! Eppure, guardandoli bene quegli occhi azzurri (e bisognosi?) gli sembrarono così vivi da provocargli un brivido lungo la schiena.
Fece per voltarsi di nuovo, convinto di avere solo immaginato quella vocina flebile, ma la sentì di nuovo, questa volta più forte.
«Non andare via, qui è buio!»
Si voltò di nuovo con il vecchio cuore malandato che batteva forte. Vide di nuovo la bambina, questa volta con i palmi rivolti verso di lui, quasi come fosse al di là di un vetro.
Il povero pittore gridò e, provando ad indietreggiare, inciampò.
«Cosa sei??» urlò, non sapendo se rivolto alla bambina o al dipinto, o al muro.
«Sono Alice!»
«Ma non puoi essere vera, sei fatta di vernice!»
«Non so di cosa sono fatta, però sono vera, mi hai creata tu» rispose lei.
Per lo spavento, al vecchio pittore saltò un qualche ingranaggio cardiaco e morì.
Fu Alice a rimanere sola.

Per sua fortuna, non rimase sola a lungo. La mattina successiva, il cortile davanti al suo muro era gremito di persone. Prima vennero degli uomini in divisa blu e bianca, accompagnati da uomini in divisa candida. Questi sembravano tutti molto interessati al vecchio pittore steso a terra, lo tastarono e poi arrivarono dei signori vestiti tutti di nero che lo portarono via su una macchina lunga. Anche la macchina era nera.
Dopo averlo portato via, gli uomini blu e bianchi guardarono per bene Alice che, spaventata per ciò che era accaduto la sera precedente, non si mosse.
Non sentiva cosa dicevano, ma le lanciavano certe occhiatacce da farle gelare la vernice nelle vene.
Finalmente se ne andarono ed arrivarono dei bambini, tanti bambini, alti più o meno quanto lei. Rimase tutto il giorno ad osservarli passare davanti al muro, ma non ebbe mai il coraggio di muoversi. Loro però, non sembravano ostili nei suoi confronti, anzi erano molto curiosi e si avvicinavano spesso al suo muro, con gli occhi sgranati per la sorpresa di trovarla lì. La indicavano e poi ridacchiavano.
Ad Alice ne piacque uno in particolare: un bambino occhialuto, mingherlino e abbastanza solitario.
Ad un certo punto risuonò nell'aria un trillo insistente e fastidioso e, a quel suono, tutti i bambini corsero dentro l’edificio.
Alice rimase di nuovo sola.

Durante la mattina, si udì spesso quel trillo prepotente, ma quando il sole iniziava ad essere quasi alto nel cielo, suonò di nuovo ed i bambini corsero fuori. Si sparpagliarono più o meno in ogni angolo del giardino, ma nessuno si avvicinava a lei, avevano già tutti perso interesse.
Tutti tranne il bambino occhialuto, che uscì dalla scuola con calma e si diresse subito verso di lei. Si sedette sopra il marciapiede, dandole le spalle e, molto lentamente e con estrema precisione, tirò fuori un panino.
Alice aspettò un po’, poi si fece coraggio e disse: «Sembra molto buono».
Il bambino si voltò per cercare la fonte di quella affermazione e, senza smettere di masticare, vagò intorno con lo sguardo. All'ultimo, si fermò su Alice, che era rimasta immobile. Lui però la guardò dritta negli occhi e disse: «Non è male».
Si fissarono per un po’, poi Alice si decise a muoversi. Lui continuò a guardarla senza battere ciglio, dietro le spesse lenti e senza smettere di masticare.
«Io mi chiamo Alice»
«Io sono Teo. Come mai parli?»
«Non lo so, credo perché chi mi ha disegnata volesse tanto che io fossi vera»
«E dove si trova adesso?»
«Non lo so, lo hanno portato via dei signori vestiti di nero»
Teo rifletté un momento, fissando un punto imprecisato sotto Alice. Poi riprese a masticare.
«Probabilmente è morto»
«Già»
«Hai proprio dei bei colori, Alice» disse Teo, masticando.
«Oh, grazie!» rispose lei, mostrando un largo sorriso.
Rimasero in silenzio per qualche altro minuto, poi si udì di nuovo il trillo insolente e spacca timpani. Teo aveva finito il suo panino.
«Mi piacerebbe tanto parlare ancora con te Alice, sei molto interessante» disse lui, alzandosi e pulendo meticolosamente i jeans dalle briciole. Alice sarebbe arrossita, ma era un dipinto e doveva accontentarsi dei colori che aveva.
«Grazie Teo, anche io vorrei parlare di nuovo con te, mi sento tanto sola qui»
«Allora domani tornerò qui a mangiare il panino» disse Teo, che però arrossì un poco.

Nel primo pomeriggio, il trillo squarciò l’aria per l’ennesima volta. Di nuovo i bambini uscirono, ma questa volta non si fermarono nel giardino, corsero bensì verso i cancelli dove le madri li stavano aspettando. Alice cercò Teo fra la folla, non osava muoversi per la paura di essere vista, non poteva nemmeno chiamarlo. Teo, però, si voltò verso di lei e la salutò agitando la mano, poi andò sorridendo verso la madre.
Alice rimase sola, ad aspettare felice un nuovo giorno da passare con il suo quasi-amico.

La mattina dopo, quando Teo arrivò nel giardino della scuola, non trovò Alice ad aspettarlo.
In effetti, non trovò proprio niente, se non un muro bianco.
Verniciato di fresco.

Rebecca, la bambina secca


Pochi mesi dopo il loro matrimonio, Gianna e Maurizio diedero alla luce il loro primo orto botanico. Niente figli per quella coppia di neo-sposini, non era nei loro piani, ma ogni tipo di organismo pluricellulare autotrofa era il benvenuto nel loro giardino. Dopotutto, si erano innamorati grazie all’amore per la botanica.
Una sera d’estate, inebriati entrambi per il troppo fertilizzante, fecero l’amore in un angolo remoto del giardino, dove il terreno era più soffice.
Nove mesi dopo, da quello stesso terreno, germogliò la grinzosa e giallognola Rebecca. Non era esattamente una bella bimba, aveva infatti la pelle opaca, scura e piena di rughe. Era anche estremamente esile, poco più che un secco ramoscello pronto a spezzarsi. Ma Gianna e Maurizio la accolsero con gioia all’interno del giardino: la estrassero dolcemente dal terreno, la battezzarono con il nome Rebecca e le affidarono il più bel vaso che possedevano, abbastanza grande perché lei potesse crescerci dentro. Come ogni pianta era in grado di nutrirsi autonomamente, ma era talmente secca che necessitava di essere annaffiata a lungo e più volte durante il giorno. Spesso Gianna si scordava, impegnata com’era a curare il resto del giardino e, quando accadeva, l’intero corpo assumeva un colore marroncino sbiadito, le grinze sulla sua pelle triplicavano, le foglioline sopra il capo ingiallivano e gli occhi color resina, i suoi stupendi occhi, indurivano. La voce le diventava niente di più che un gracchiare fastidioso e flebile, difficile da distinguere dal verso di una cornacchia.
In passato, Maurizio e Gianna avevano vinto numerosi premi grazie ai prodotti del loro orto, ma mai pianta fu prolifica quanto Rebecca, con le la vittoria era assicurata! La addestrarono fin da germoglio a mettersi in mostra: la appoggiavano sui tavoli dei concorsi di botanica e lei subito lanciava in aria le esili braccia e sorrideva, spalancando i bellissimi occhi color resina e sbattendo veloce le palpebre. Come bambina poteva non essere un granché, ma come pianta era davvero uno spettacolo, non si era mai visto nulla di simile!
Rebecca non poteva entrare in casa, perché secondo Maurizio e Gianna avrebbe portato troppa terra, perciò avevano posizionato il suo vaso in un angolo appartato del giardino, lo stesso nel quale era germogliata. Un angolo lontano dalle altre piante e al riparo dal sole, che l’avrebbe asciugata troppo velocemente. Perciò, Rebecca passava molto tempo da sola, bloccata nell’estremità dell’orto in cui Maurizio e Gianna capitavano solo per darle l’acqua, quando Gianna non si dimenticava.
Ogni tanto qualche animaletto passava da quelle parti e Rebecca poteva avere qualcuno con cui comunicare: un topolino che si arrampicava sulla sua testa, qualche ape che le ronzava attorno, un coniglio fuggiasco e di tanto in tanto qualche uccellino che scendeva a bassa quota.
Una notte una gazza ladra le si appollaiò sul braccio e le raccontò della vita degli alberi al di là dei confini dell’orto botanico: niente fertilizzante, boschi, ruscelli da cui l’acqua sgorgava senza sosta, fiumi addirittura!
«E come fa l’acqua ad arrivare alle piante se non hanno l’annaffiatoio?» chiese Rebecca affascinata.
«Gli alberi fuori di qui non vivono nei vasi, ma hanno le radici nel terreno» rispose la gazza, mentre si gingillava con la linguetta di una lattina, il suo ultimo furto.
«L’acqua arriva alle piante direttamente dal terreno» continuò.
«E possono averne quanta ne vogliono?»
«Sì, tutta quella che vogliono e di cui hanno bisogno»
Rebecca quella notte sognò di avere i piedi-radici nel terreno, di non avere mai sete e di avere la pelle liscia, le foglie sempre verdi e gli occhi umidi e luminosi. Al mattino si svegliò secca e con la pelle grinzosa. Gianna si era di nuovo dimenticata di darle l’acqua.

Passarono i mesi e per Rebecca arrivò finalmente il momento del cambio del vaso. Aveva aspettato impaziente quel giorno per settimane e, quando Maurizio e Gianna arrivarono insieme per sradicarla, Rebecca si fece coraggio e buttò fuori la richiesta con un’unica frase: «Vorrei tanto essere piantata nel terreno».
I due si guardarono, poi Gianna scosse la testa, estrasse gli attrezzo per il cambio vaso e disse: «Non credo sia possibile, tesoro».
«Perché?»
«Sei ancora troppo piccola» rispose Gianna, iniziando a scavare la terra nel vaso.
«Non sono troppo piccola! E poi ci sono piante che germogliano nel terreno e vivono senza mai essere messe in un vaso!» protestò Rebecca.
Maurizio si avvicinò con l’innaffiatoio e la bambino lo pregò: «Non avrei più bisogno di essere innaffiata da voi così tanto, e potrei stare al sole, io amo così tanto il sole!»
«Hai ragione, ma noi non potremmo più trasportarti» intervenne Maurizio, versandole l’acqua sopra la testa.
«Ma io non voglio essere trasportata…»
«Su Rebecca non essere sciocca» tagliò corto Gianna, mentre alzava a bambina dal vaso.
«E smettila di agitare quei piedi»
«Ma io preferirei rimanere qui con voi e non avere mai sete!»
«Ma come? Non ti piace quando sei sul podio e tutte quelle persone ti guardano,ti ammirano e ti premiano per la tua bellezza?»
Rebecca non rispose, ma scosse un poco la testa.
«Un giorno non sarai più adatta a tutti quei concorsi» disse Maurizio.
«Diventerai troppo grande e non ti potremmo più trasportare. Allora potremmo discutere del piantarti nel terreno » continuò, le diede un buffetto sulla testolina coperta di foglie e si allontanò.
Gianna ormai aveva messo Rebecca nel nuovo vaso. Quindi si tolse i guani, ripose gli attrezzi e si alzò.
«Su Rebecca, non farei i capricci. Devi solo avere pazienza, ok?» disse, mentre si stava già allontanando. Rebecca annuì, mentre una lacrima salata, uguale a quelle di chiunque, le scendeva lungo la guancia, già leggermente secca.
E continuò ad aspettare.

Poche settimane dopo, Gianna e Maurizio la portarono ad un nuovo concorso botanico che si sarebbe tenuto in una cittadina piuttosto lontana. Era un avvenimento molto importante ed i due preparavano Rebecca ormai da settimane, addirittura Gianna si era sempre ricordata di darle l’acqua.
Si diceva che la giuria sarebbe stata spietata e che ci sarebbe stato un grosso premio di denaro e prestigio per il primo classificato. Gianna e Maurizio avevano già progettato l’allargamento del loro giardino botanico, perciò la vittoria era più che necessaria.
Rebecca fu favolosa e lasciò tutti a bocca aperta, nessuno aveva mai visto qualcosa del genere! Ne furono tutti così entusiasti, giuria compresa, che le assegnarono il primo, il secondo, il terzo premio e anche le tre menzioni d’onore!
Nei giorni seguenti, Gianna, Maurizio e Rebecca non ebbero un attimo di respiro. Passarono ore interminabili in balia dei giornalisti, sorridendo a tutti, bevendo vino, mettendo in mostra Rebecca e facendola fotografare da tutti.
Solo che, in mezzo a tutto questo trambusto, nessuno si era ricordato di dare l’acqua a Rebecca. Lei aveva cercato più e più volte di ricordarlo, ma i due erano così presi dalla vittoria che non la sentirono nemmeno. Gianna la liquidò con un: «Sssh! Rebecca, stai buona».
Una sera ci fu una grande festa per la vittoria. Maurizio e Gianna avevano posato Rebecca su un tavolo e l’avevano dimenticata, così come gli altri. Si addormentò
Quando qualche ora dopo aprì gli occhi, le palpebre le scricchiolarono come non mai. La pelle, ormai ridotta ad una corteccia secca e crocchiante, sembrava pronta a spezzarsi. Guardò verso il basso e vide che tutte le foglioline della sua testa si erano accartocciate ed erano cadute, morte. Le venne da piangere, ma la resina degli occhi si era così indurita che non riuscì a versare nemmeno una lacrima.
La stanza era ancora piena di gente, compresi Gianna e Maurizio, allora tentò di chiamare aiuto. Ci mise tutta la forza di cui era capace, ma riuscì a produrre solo un suono gracchiante e flebile. Nessuno se ne accorse.
Rebecca, a fatica, richiuse le palpebre. Immaginò che i suoi piedi e le sue radici poggiassero su di un terreno umido e soffice. Sentiva attorno a sé il vento tiepido ed il cinguettio squillante degli uccellini di bosco. Alberi più alti e grandi di lei la circondavano, la proteggevano e si spostavano perché potesse ricevere i raggi caldi del sole.
E lei non si spaventava a quel calore.
Non aveva più sete, ormai.

Quando Gianna e Maurizio si ricordarono di lei, trovarono solo un pezzo di legno secco, circondato da foglie morte.

Fatalità

Questa storia dovrebbe parlare di Teo, che quella mattina del 13 settembre, attraversò la strada che separava la fermata dell'autobus dall'ufficio e dalla tanto agognata promozione.

Dovrebbe parlare di come, ottenuta la promozione, Teo corse da Lidia con un mazzo di rose blu-chimico in una mano ed una scatola di cioccolatini pralinati  nell'altra, per darle la bella notizia.

Dovrebbe parlare di come lei pianse di gioia e del successivo matrimonio, possibile solo grazie ai soldi in più.

Dovrebbe parlare di quando riuscirono a comprare un'auto, un seggiolino per il sedile posteriore. Di come riuscirono ad ottenere un mutuo e dentiere indistruttibili.

Sì, questa storia dovrebbe parlare di tutto questo, ma non sarà così, perché Teo non attraversò mai la strada.

Eppure fu prudente: guardò sia a destra che a sinistra prima di muovere il primo passo.

Fu allora che un elicottero gli cadde in testa.